È morto William Bond, ricercatore delle praterie che ha enfatizzato l’importanza del contesto nella conservazione.
Le critiche di Bond all’idea di riforestazione universale
Negli ultimi anni, una delle idee più diffuse nelle politiche ambientali è stata quella che gli alberi rappresentano il rimedio universale per il pianeta. Si pensava che piantandone un numero sufficiente in luoghi diversi, si potessero assorbire grandi quantità di carbonio, ripristinare le risorse idriche e far rivivere la biodiversità. Questa proposta, benché semplice e ottimistica, si è rivelata errata in molte circostanze. La resistenza a questo modo di pensare non proveniva solo da oppositori o contestatori, ma dalla scienza ecologica stessa.
Nel corso degli anni, le prove hanno dimostrato che vaste aree del mondo, a lungo ritenute foreste degradate, non erano affatto degradate né foreste. Erano praterie e savane antiche, forgiati da incendi, erbivori e dalla storia. Considerarle come foreste fallite e ricoprirle di alberi rischiava di distruggere i sistemi stessi che si intendeva “restaurare”.
Bond ha chiarito che gli ecosistemi aperti non sono spazi vuoti in attesa di alberi, ma complessi sistemi ecologici con storie, regole e ricchezze proprie. Le praterie e le savane non sono tappe intermedie verso le foreste, ma risultati alternativi mantenuti da processi fondamentali come le precipitazioni e la composizione del suolo.
